investiti di autoreferenzialità, gli architetti (ma i designer fanno coppia) in questi ultimi decenni si sono lanciati verso lidi lontani dai quali erano salpati.
Seguendo rotte libere, slegate dalle esigenze dei molti, hanno creduto di essere superiori al servizio che erano chiamati a rendere. Il protagonismo era facile da cavalcare, solo in quel modo avrebbero potuto sentirsi finalmente appagati. Attraversati dal sentimento della gloria, non erano più secondi agli artisti. Il danno - culturale - era compiuto.
Le loro opere, intrise di intellettualismo farcito di vanità, come accade per i medici di oggi sempre meno felicemente rispettosi di quanto giurato ad Ippocrate, hanno affermato un’idea di architettura via via più lontana dal registro funzionale. E l’hanno fatto, ancor più grave, inconsapevolmente, convinti che dire razionale corrispondesse a funzionale appunto.
Superata questa fase lacerante hanno creduto fosse loro diritto variegare la riga orizzontale, sostituirla con una obliqua, svergolare finestre e plafoni.
Manie di distinguo, che senza incertezze, trattandosi di città, palazzi, quartieri, di dominio pubblico intendo dire, hanno partecipato a mio parere, più considerevolmente del finora sospettato, a destabilizzare quel residuo di identità, certezza, serenità che, nella relazione con la domus, l’uomo percepisce, sulla quale si fonda e realizza la realtà.
L’operazione, è stata fatta con il foulard al collo o con altre stravaganze leggere. Lo faceva la moda, l’arte, il design, perché non avrebbero potuto farlo loro?
Ora molti paesaggi sono carichi del peso insopportabile della bruttezza, molti di questi, confinati in spazi dal quale l’occhio non può fuggire. Valli e litorali sono lì a dare dimostrazione delle pene di queste righe.
Il valore dell’arcano della domus non sarebbe stato sostituito dallo schizzo blasfemo pieno di guizzi, risatine, e pretese di verità se chi l’ha disegnato non stesse scivolando felice nel gorgo pauroso dell’edonismo.